Ogni anno,
l'ultima settimana di agosto, preparavi la conserva di pomodoro.
Arrivavano
quintali di pomodori rossi e maturi, quelli per il sugo, oblunghi,
pigiati dentro cassette di legno chiaro fragili come la stagione.
Abitavamo in
quella casa da poco, prima era la nostra casa delle vacanze, da
vivere solo d'estate. Andavamo a comperare le uova da una contadina
che allevava anche le galline: abitava con la famiglia in una casetta
di pietra, lungo la strada che era anche la nostra e che non portava
da nessuna parte, finiva così, in un grande campo coltivato. A te
piaceva, che la strada non conducesse altrove: dicevi che così
eravamo più tranquilli, più sicuri. Ero troppo piccola per capirne
il significato, allora.
Quella
contadina veniva a darti una mano, con la conserva di pomodoro:
adesso mi è chiaro il suo ruolo, necessario. Avevi troppo, sulle
spalle. Era una gran fatica, per te, lavare tutti quei pomodori,
passarli nel passapomodoro, trasformarli in un liquido denso, senza
bucce, senza semi, per carità!
Tutto
diventava rosso, le tue mani, il lavello, la cucina. Sarà per quella
fatica imposta vista da bambina, che adesso, che dell'innocenza di
allora mi è rimasto solo il desiderio, se voglio preparare il sugo
getto nella padella i pomodori interi, con la buccia, i semi e tutto.
E se alla sera, la lunga sera dell'estate, eravamo ancora lì a
preparare la conserva, noi bambini spettatori inutili e invadenti, e
lui tornava dal lavoro, ricordo la sensazione di paura perché la
cena, magari, non era ancora pronta.
Si sedeva,
allora, a leggere il giornale, la faccia buia. Non c'era allegria,
condivisione, aiuto, sporcarsi le mani insieme, riderne. Era un
compito riservato alle donne, la conserva. E la cena. Apparecchiare,
portare in tavola, sparecchiare.
In silenzio,
sperando che il cattivo umore gli passasse così com'era venuto.
Preparavi in
fretta la pasta, con il sugo già che c'eri, senza cipolla ché lui
ne detestava l'odore, quel buon profumino di soffritto lo riempiva
d'ira. Bisognava comunque, cipolla o no, cucinare con la porta ben
chiusa e la finestra spalancata, che “gli odori di cucina” lo
irritavano moltissimo. Meglio evitarne le ire, per me terribili. Mi
rendo ben conto che ci son cose peggiori da sopportare, come dicono
le persone più sagge di me e di te, ma io sento ancora la paura che
mi stringe lo stomaco, anche ora, che sono grande, e sassi in specie
non ne tiro più. Cercavi di non farci sentire la tua preoccupazione,
per il tuo ritardo. Cercavi di preparare il più velocemente
possibile. E servivi i maccheroncini caldi e ben conditi, allora non
contavo le calorie, mi piaceva il mio piatto pieno, mi piaceva il
sugo rosso e profumato. Aspettavi da lui una parola gentile. Un
sorriso, magari.
“Sono
insipidi. Dov'è il sale?”.